Virus e le varie fasi di contrasto
Intervento di Renzo Dori
Tutti ne parlano: fra qualche giorno entreremo nella fase due di lotta al Covid-19. Il percorso fatto per superare la fase uno e avviarci verso la fase due è stato costellato di aspetti a volte drammatici, spesso dolorosissimi, eroici e di profonda crisi economica e sociale. Non è stato facile per nessuno. Abbiamo deciso di cadenzare la lotta contro questo terribile virus per fasi, quasi fossero “campagne” di guerra. La fase uno, la due, la tre e la quattro quando potremmo finalmente dichiarare la sconfitta del nemico virus attraverso l'individuazione di nuovi farmaci e speriamo anche di un vaccino. La classificazione matematica, la sua progressione ci pone un interrogativo: c'è stata una fase iniziale zero? Lo zero da sempre precede il numero uno. Certo che c'è stata una fase zero e forse non tutti l'hanno messa a fuoco. Da molto tempo l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha segnalato ai paesi del mondo il pericolo dell'avvento di una pandemia simile alla famosa influenza spagnola del 1918. Il rapporto del 2019 del Global Preparedness Monitoring Board evidenziava il “rischio molto reale di una pandemia veloce e altamente letale causata da un patogeno in grado di colpire le vie respiratorie” (più chiaro di così). Non basta, nella fase zero, possiamo far rientrare anche il Regolamento 425/2016 del Parlamento e Consiglio europeo che prescriveva l'opportunità di garantire al personale degli ospedali il massimo di dotazione di strumenti di protezione individuale per evitare di essere contagiati da virus particolarmente virulenti (al 27 aprile i medici morti a seguito di contagio sono 150 e gli infermieri oltre 40). Ancora, non si possono scordare i Piani pandemici nazionali del 2006 e quelli regionali del 2007 nonché le specifiche norme contenute nel D.lgs 81/2008 che poi non sono stati minimamente attuati. Nonostante tutte queste segnalazioni e avvertimenti il nostro sistema sanitario negli anni recenti conosceva invece un stagione di continui tagli e ridimensionamento della spesa, di diminuzione dei posti letto ospedalieri e di terapia intensiva e l'impoverimento del settore della prevenzione e della medicina di territorio. Tutto questo era “dentro” la fase zero e ha esposto il nostro sistema sanitario nazionale e quello locale ad un rischio molto alto qualora si dovesse far fronte ad una pandemia. E così è stato. Siamo non entrati, bensì piombati nella fase uno del tutto impreparati con una conseguente rincorsa frenetica a tamponare un fenomeno, un virus tanto sconosciuto quanto terribile. L'abbiamo vissuto tutti e in parte lo stiamo ancora vivendo: la fase dei contagi, la difficoltà nel contenere e controllare i focolai, il picco di pazienti in terapie intensive in continua espansione per rispondere alle crescenti necessità, i posti letto “inventati” di terapia semi-intensiva, i focolai in molte RSA e poi i decessi, le morti di un gran numero di anziani, ma non solo. Un dolore enorme che si è abbattuto sulla nostra comunità. L'abbiamo vissuta non dimenticando mai che dietro quei freddi numeri in costante crescita di infettati, di morti e anche di persone guarite c'erano storie di persone, di affetti, di vite vissute, di famiglie.
L'abbiamo vissuta duramente questa fase uno che ci ha segnati in qualche modo nel profondo; l'abbiamo vissuta anche responsabilmente accettando tante limitazioni alle nostre libertà che credevamo inviolabili, ci siamo rinchiusi in casa, ci siamo distanziati ubbidienti alle raccomandazioni che via via gli esperti scienziati ci fornivano. Non credo che la dimenticheremo facilmente anche se la prossima attenuazione delle “prescrizioni e limitazioni” personali, sociali ed economiche, previste per la fase due, ci danno un senso di ritrovata speranza. Questo passaggio alla fase due va però fatto con lucidità e senza commettere errori che ci riporterebbero inesorabilmente di nuovo nella fase uno.
Se nella fase uno si è tanto investito e speso per gli ospedali, per le terapie intensive e semintensive, per attrezzature e dispositivi di protezione individuale (DPI) e molto altro, nella fase due bisognerà “spostare” il flusso degli investimenti e della spesa per dare corpo e rafforzare la medicina sul territorio a partire dai medici di medicina generale, dalle Unità Speciali di continuità assistenziale (USCA) dotandole di un organico minimo di due medici e un infermiere (in Trentino sono 10, ma non tutte a regime), dalla telemedicina, dalle residenze albergo per l'isolamento dei contagiati, dalle RSA potenziate e riorganizzate per affrontare eventuali infezioni e contagi; dobbiamo avere disponibilità sufficienti (con adeguate riserve) di tamponi, solventi, test sierologici, mascherine di varie tipologie e dispositivi di sicurezza individuale per personale sanitario e assistenziale; dobbiamo avere laboratori di analisi efficienti e rapidi nel certificare l'eventuale contagio. Insomma dobbiamo essere pronti perché il virus nella fase due convive con noi e basta niente per ritornare a colpire la nostra comunità creando focolai e contagi fuori controllo. Non scordiamoci del fatto che (al 28 aprile) i contagiati attuali sono 2.338 (su un totale di 4.626) con tendenza all'aumento e che di questi ben 1.509, pari al 65%, sono a domicilio. Di tutto questo dobbiamo avere consapevolezza e sopratutto disponibilità di strumenti adeguati, efficienti e efficaci per bloccare immediatamente il primo soggetto che viene infettato, isolarlo, ricostruire i contati che ha avuto per contenere al massimo il contagio. Se non siamo certi di poter disporre di tutte queste dotazioni tecniche e di personale specializzato sul territorio per garantire una immediata risposta e una pronta capacità d'intervento, la fase due va ricalibrata. Non sarà facile “convivere” con questo potenziale e micidiale rischio. Certo il coronavirus ora lo conosciamo meglio e in molti casi (1.881 guariti) lo abbiamo sconfitto con terapie adeguate, peraltro sappiamo anche con quale facilità e in modo subdolo, riesca ad insinuarsi fra le persone, nei luoghi di lavoro, nelle comunità (vedi recente caso RSA del Vanoi). Sarebbe grave farci trovare questa volta impreparati.
Renzo Dori
Presidente Consulta per la salute